Le cose che pensiamo e non diciamo
Una relazione programmatica.
Pochi clienti. Meno soldi. Più attenzione.
Jerry Maguire
Mi torna spesso in mente, in questo tempo di pandemia, la relazione programmatica scritta da Jerry Maguire (un film con Tom Cruise per chi non lo conoscesse). Sembra stupido, sembra un collegamento illogico eppure balza di continuo nella mia testa.
In quella relazione si parla di rimettere al centro la persona, di prendersi cura in modo continuativo, di starle accanto, di farle sentire che è importante e di sentirla importante dentro di noi.
Si parla di cambiamento.
Jerry finisce col ritrovarsi solo, con l’eccezione di un pesce rosso ed una segretaria di cui ignora il nome.
Il cambiamento spaventa più di ogni altra cosa, spaventa più degli ospedali pieni e più del conteggio dei morti.
Narracci, tempo fa, diceva che l’errore degli psichiatri sta nel cercare di annullare le crisi per mantenere l’omeostasi invece di sfruttare la crisi per avviare un cambiamento che porti alla guarigione.
Ma chi sa di di disagio mentale, sa bene che, dietro ad un paziente psichiatrico, c’è un intero sistema che dovrebbe intraprendere la strada del cambiamento.
Oggi toccherebbe ad un’intera società. Questa pandemia sarà uno spartiacque della storia. Ci sarà un prima e dopo pandemia. Il prima possiamo comprenderlo, il dopo dobbiamo sceglierlo, costruirlo.
Nel momento in cui, cioè sempre in questo periodo, si parla di covid-19, quello che non si dice in modo chiaro è che non siamo di fronte ad un’emergenza umanitaria bensì ad un’emergenza sanitaria, un’emergenza del sistema sanitario.
Negli ultimi 20/25 anni il numero degli operatori sanitari è calato drasticamente, non solo per un minor investimento (sebbene ci sia anche questo). È cambiato il sistema di cura, l’idea che sta alla base. Ed è anche migliorata l’efficienza e la tecnologia a supporto della medicina.
Siamo passati da degenze settimanali a sempre più interventi gestiti in day hospital.
Una donna partorisce e dopo due/tre giorni è a casa. Il momento della vita che più di ogni altro avrebbe bisogno di lentezza è stato accelerato all’inverosimile.
Molti clienti. Molti soldi.
Mc Donald inventò un sistema in cui i clienti dovevano stare poco, pochissimo dentro il locale e scambiarsi velocemente.
Se i clienti del Mc negli anni 60 avessero deciso di restare seduti per un’ora, oggi non potrei utilizzare questo esempio come esempio funzionale, perché sarebbe andato incontro al fallimento.
Il nostro sistema sanitario collassa sotto il peso del covid-19, perché il paziente affetto da covid-19 è come il cliente del Mc Donald che occupa il tavolo per un’ora, o anche per due.
Abbiamo un sistema sanitario che ha muscoli da centometrista. Sono muscoli importanti, forti, meravigliosamente efficienti e rapidi eppure incapaci di correre una maratona.
Non è giusto. Non è sbagliato. È una scelta. È un modello.
Il problema del covid, e questo ho la presunzione di dire che fino ad oggi non è stato detto in modo corretto, non è la letalità (bassa rispetto ad altri coronavirus) né la contagiosità (seppur molto alta): il
problema è la durata.
Chi finisce in ospedale, che abbia 50, 60, 70, 80 anni non importa, occupa un posto letto per decine di giorni.
Non soltanto per guarire.
Mi sono detto di essere onesto e lo sarò fino in fondo: il nostro sistema non regge e quindi la società deve fermarsi, perché ci vuole troppo tempo per morire di covid!
L’associazione tra pandemia da covid e guerra è sbagliata per più motivi a livello di società (“Il virus di Schrödinger, Ecologia della mente, vol. 43, n. 2, 2020) e confonde la percezione della realtà di questa malattia ma per quanto concerne il paziente ricoverato allora l’immagine della trincea è corretta. Si è sempre parlato della prima guerra mondiale come una guerra di logoramento e logoramento è proprio il temine giusto per descrivere lo stato d’animo del paziente e di chi lo segue. Un giorno si fa un metro avanti, il giorno dopo due indietro e così via fino al decimo, ventesimo, trentesimo giorno.
Per quanto riguarda i sanitari coinvolti direttamente nella gestione dei pazienti covid, trovo calzante il paragone con un’altra guerra, la guerra del Vietnam: una guerra combattuta in un territorio sconosciuto,
un territorio da cui sbucano nemici in ogni momento, un territorio in cui si vive sempre in tensione perché non può esserci una zona sicura. Anzi le zone che si pensano sicure diventano spesso le più pericolose
(stanza dove si mangia o si prende il caffè, spogliatoi… i luoghi dove a cose normali ci si poteva rilassare).
Se lo stesso numero di decessi raggiunto ad oggi si fosse avuto per un virus molto potente che in pochi giorni spezza le nostre difese, gli ospedali non sarebbero mai stati pieni ed i medici non sarebbero stati
psicologicamente devastati. Un malato di Ebola lascia presto libero il proprio letto, un malato di covid no.
Non si tratta di aver ragione o torto, di essere rispettoso o irrispettoso, si tratta di una descrizione della realtà.
Non si dice ad un reporter in Africa che è irrispettoso se fotografa un bambino in fin di vita per la denutrizione.
Il politicamente corretto è uno dei fattori che ha distrutto e distrugge il dialogo, o ancor meglio, il ragionamento circolare.
Cerco di fare un discorso circolare e mi rendo sempre più conto che ormai la tendenza è quella di prendere solo il lato destro o il lato sinistro della stessa medaglia.
Passo regolarmente dall’essere considerato un negazionista, quando di fronte al caso del ventenne morto ricordo che non è il singolo caso a descrivere una malattia ma la statistica generale, ad essere chiamato “coviddista” da mia figlia perché esagero con mascherina, pulizia delle mani e ricambio di aria nelle stanze.
Questa emergenza dovrebbe far aprire un cambiamento non solo riguardo al sistema sanitario ma ancor più sulla società.
Abbiamo strutturato una società in cui si deve trovare tutto fuori dalle mura domestiche.
I miei nonni negli anni 60 compravano una casa popolare: era 90 metri quadrati.
Due camere grandi, un bagno, una cucina non troppo spaziosa ed una bella sala. Ripeto, era una casa popolare.
Anche la generazione dei miei genitori inseguiva l’idea di una casa accogliente e spaziosa e il mercato, specchio delle richieste, offriva questo.
Perché?
I nostri genitori ricercavano questi spazi da un lato perché l’idea di famiglia era talmente solida (troppo certo, ma oggi troppo poco, credo) da non mettere in dubbio che quella casa sarebbe stata la casa di una vita intera; dall’altro lato questi spazi domestici rispondevano all’idea di dover invitare il Sabato una coppia di amici con i loro figli (i classici “amici di famiglia”) a cena, per passare insieme la serata sul divano a parlare di politica, di cultura, di sport.
Oggi il mercato offre case piccole per andare incontro e al tempo stesso sostenere l’idea che la socialità vada vissuta fuori.
Sia da single che da coppia si esce tutte le sere. La casa serve solo per tornare a dormire.
E quando arrivano i figli non cambia poi molto. A volte si portano i bimbi con noi, altre volte esco io marito con i miei amici, altre ancora esci tu moglie con le tue amiche (rileggetelo anche in termini di coppia omosessuale perché i comportamenti non cambiano).
E quando siamo a casa siamo comunque con la mente all’esterno.
Ci mettiamo sul divano ma non per parlare di politica, cultura e sport o per guardare un film ma per commentare foto, video, meme, guardare chi ha visto il nostro stato su whatsapp o commentato una nostra “storia” o un nostro post.
Il mondo esterno è sempre tra me e mia moglie, tra me e mio marito, tra me ed i miei figli.
La mia generazione ricorda quando tutti avevamo il telefono fisso in casa: chi si sarebbe sognato di chiamare alle nove di sera?
Se alle 22:00 suonava il telefono, il primo pensiero era che un familiare si fosse sentito male!
Oggi suona o vibra anche di notte.
Anche il lavoro, soprattutto per i liberi professionisti, è sempre presente. Un amico commercialista si lamentava dei clienti che lo chiamavano o “messaggiavano” di domenica, e della sua impossibilità a non rispondere per timore che quei clienti si rivolgessero a qualcuno più disponibile. Quando si doveva chiamare in ufficio lo si faceva solo dal lunedì al venerdì.
Firmiamo moduli e moduli di privacy e più ne firmiamo e meno rispettiamo la privacy degli altri.
È colpa del cellulare se la vita è strutturata in questo modo, se nemmeno la casa dopo cena diventa un luogo privato? Certamente no, se continuiamo a pensare in termini lineari di causa-effetto. La realtà va sempre guardata in termini circolari, ed in questo caso lo smartphone, lo smartwatch e tutti quei dispositivi che ci mantengono continuamente connessi, sono fattori importanti che vanno incontro e
spingono in questa direzione il sistema (esattamente come la tipologia di casa).
Certo è che lo smartphone ci impedisce di stare al 100% su un compito, di qualunque natura esso sia.
Dallo stare col coniuge e/o i figli, dal lavoro, dal tempo libero di una passeggiata nel parco, dal film sul divano: abbiamo sempre il telefono in mano o comunque con noi per essere preso al primo motivo (futile ed inutile ma che a noi ormai sembra essenziale).
La tecnologia è meravigliosa. L’uso che ne facciamo è stupido.
Abbiamo costruito una società basata sull’economia e sul divertimento individuale, due fattori che si incrementano a vicenda. Ricordo Pascal: la distrazione è la più grande delle nostre miserie. È ciò che principalmente ci impedisce di pensare a noi stessi, e che ci porta a perderci senza accorgersene. Senza di essa saremmo nella noia e questa noia ci spingerebbe a cercare un mezzo più consistente per uscirne. La distrazione ci svaga e ci fa giungere senza accorgersene alla morte”.
La morte.
La morte l’abbiamo allontanata così tanto dai nostri pensieri che oggi, in cui torna di fronte ai nostri occhi, finisce per sconvolgerci.
Non è solo per il fatto che i medici sono sempre più specializzati, che gli strumenti tecnologici sempre più sofisticati, che le cure sempre più efficaci. Certo questo influisce sul pensiero che qualsiasi cosa ci prenda possa esistere una cura o un intervento risolutivo, ma non basta.
Abbiamo abolito quel tempo in cui poter avere un pensiero alto, pensiero che implichi anche la finitezza e la brevità della nostra vita. Perché questo è la nostra vita: finita e breve.
Siamo drogati di divertimento e la società ne offre sempre di più per farcene desiderare ancora ed ancora (non ci rendiamo nemmeno più conto che spesso i nuovi divertimenti non sono altro che i vecchi cambiati
di abito).
E questa droga del divertimento inizia fin da subito.
Resistono ancora cartoni animati con una storia da seguire di puntata in puntata, ma spesso i bimbi guardano programmi basati su singole puntate autoconclusive che devono far ridere (ed in questo sono fatti davvero bene: rido anche io a guardarli).
I nostri cartoni, oggi giudicati dal violento al sessista, veicolavano valori come l’impegno, il doversi migliorare con il tempo e la fatica, il sacrificio, l’onestà, l’amicizia.
Basta ascoltare le sigle per notare immediatamente il cambiamento. Quelle nostre erano vere e proprie canzoni, che ancora oggi risuonano nei karaoke. È un caso?
Ci fermiamo un po’ ed il virus torna a mordere meno. Non vorrà dire niente?
Perché non si può dire che ci siamo spinti troppo oltre, con questo sempre essere in movimento, sempre essere fuori?
Il passato aveva senz’altro grosse pecche (una donna non poteva studiare all’Università perché era un dovere/privilegio destinato al fratello. Attenzione: dovere/privilegio).
Anche il nostro presente ha molti aspetti negativi eppure, mentre per quelli del passato i nostri genitori hanno lottato ed avviato un cambiamento, noi oggi facciamo di tutto per continuare a spingere sull’acceleratore.
Sono convinto, ed in questo una simulazione di un matematico dovrebbe venirmi incontro, che se avessimo mantenuto uno stile di rapporti basato sullo stare nelle proprie case con gli amici più cari, invece che riempire strade e locali, questa pandemia forse non si sarebbe chiamata così.
E quando si pensa questo scenario, bisogna inserire nei fattori la libertà di poter dire la verità all’altro.
Oggi, un possibile malato di covid in attesa di tampone, viene percepito come un untore e per questo molti tacciono e si comportano, sbagliando, come se niente fosse.
Ma se ceno con un amico caro ed il giorno dopo mi sveglio con un po’ di febbre non temo il suo giudizio e subito lo avverto. A quel punto se lui aveva intenzione di visitare i propri genitori o vedere altri amici,
blocca tutto in attesa di sapere se io sono positivo e se lo è anche lui.
Così facendo, anche se lo avessi contagiato, la catena del contagio sarebbe già conclusa.
L’amico potrei chiamarlo anche se siamo stati insieme a fare un aperitivo in centro: ma le altre 50 persone con cui sono venuto accidentalmente in contatto vogliamo considerarle?
E il problema siamo noi quarantenni, voi trentenni, voi cinquantenni: siamo noi che abbiamo invaso i luoghi della gioventù!
Abbiamo invaso le strade, le piazze, i locali. In quei posti ci devono stare i ventenni, a far casino, a litigare, a innamorarsi, ad annegare in una birra la fine di una storia.
Ed invece ci andiamo noi, perché i 40 sono i nuovi 20!
Però eravamo sempre noi che da ragazzi se entravamo in un locale e ci trovavamo dei quarantenni, si commentava cose tipo “ma che ci fanno quei vecchi”.
Sprechiamo gli anni di maggiore forza fisica ed intellettuale a fare aperitivi finendo per sentirsi eterni bambini.
Viviamo un mondo.
Mi sono bloccato su questa frase. Le tre parole sono venute di getto ma poi il vuoto.
Viviamo un mondo vuoto.
Un mondo in cui siamo sempre attivi, tanto che sembra non aver un attimo libero, ma poi alla fine la cosa più grandiosa è ridere su un meme di Jordan oppure trasformare il nostro volto in quello del sesso opposto o ancora caricare video su Tik Tok e cosa se ne importa se in tutto questo diamo i nostri dati in pasto ai big tech occidentali (GAFAM), ai russi o a un covo di pedofili.
Ridere. Conta solo ridere.
Eppure i latini dicevano che il riso abbonda sulla bocca degli stolti.
Una società in cui uno dei pilastri è il ridere non può che essere una società stolta.
E poi c’è l’economia. Un’economia le cui regole ci portano di continuo nel baratro e nonostante questo continua a non mutare le proprie regole e a controllare le nostre vite.
Come nel 2008, stiamo vivendo una crisi innescata dai meccanismi economici, solo che questa volta ci rimette la salute di molte più persone, anche se trovo sinceramente più drammatico quanto avvenne al crollo delle banche.
File di persone con in mano uno scatolone pieno delle cose che aveva sulla propria scrivania, persone che si suicidavano e famiglie ridotte sul lastrico.
Lo trovo più drammatico perché in quel caso la colpa era tutta dell’uomo e della sua avidità.
Lì non si poteva incolpare un virus, adducendogli una volontà che la natura non possiede. Ma anche in questo caso l’economia ha una forte responsabilità.
Uno stato non può dire del virus fino a quando questo non ha messo in crisi altri stati, altrimenti la mia economia rischia un contraccolpo.
Questo ha pensato la Cina, questo ha pensato l’Italia, questo hanno pensato Germania e Francia quando ostentavano che loro non avevano casi, in modo da fortificare la propria economia.
Il termine globalizzazione non va più di moda (oggi il termine in voga è “resilienza” sebbene il 99% di chi lo usa non ne conosce il significato) e sono contento che non si usi più perché mai come oggi il nostro mondo è diviso.
Non ci sarà più la guerra fredda ma ogni economia è diventata una cortina di ferro che ci divide e mette in competizione.
La nostra vita è tenuta in scacco da tutto questo.
Non si lavora per vivere. Si vive per lavorare!
Orari assurdi, stipendi da denuncia.
E quando a qualcuno viene in mente che ci sono dei figli che necessitano di cure, invece di mettere in discussione un sistema lavorativo che porta i genitori fuori dalle sette la mattina alle otto di sera, si chiede alla strutture educative di fare tempi più lunghi.
E per far ripartire il sistema si chiede un piano agli stessi economisti che continuano a portare avanti questo modello economico, infiocchettando il tutto con termini come “parità di genere” o “green deal”.
Verità scomoda: il mondo del lavoro nel passato era agevolato dal fatto che molte donne non lavoravano o lo facevano per mezza giornata.
Era sbagliato il dogma che fosse l’uomo a lavorare e la donna a stare a casa (anche se è indubbio che ai bimbi piccoli serva più la mamma del babbo), ma dal punto di vista del mercato questo portava ad aver meno forza lavoro a cui doveva essere garantito uno stipendio più alto.
Bisognerebbe tornare a lavorare in meno persone (persone, non ho detto meno donne o meno uomini) ma questo non potrà mai essere fatto fino a quando si passa implicitamente il messaggio che l’unico modo per sentirsi persone realizzate e produttive sia attraverso il lavoro.
Perché una società non deve sentirsi produttiva se cresce dei figli?
Crediamo davvero che nelle famiglie lavorino sia padri che madri per ambizione, desiderio, vocazione?
Oppure molti lo fanno perché con un solo stipendio non è più possibile arrivare alla fine del mese?
Piuttosto che criticare il sistema attuale, gli diamo linfa inventando nuovi “lavori” come ad esempio l’influencer: lavori che fanno arricchire molto pochissime persone ma che ne abbindolano milioni nella speranza di poter essere una di quelle che ci riesce.
In tutto questo non guardiamo o non vogliamo guardare sotto la pianta dei nostri piedi.
Altrimenti vedremmo che stiamo camminando sopra una lunga distesa di cadaveri: uomini, donne e soprattutto bambini.
Bambini che muoiono nelle miniere di cobalto necessario per i nostri smartphone.
Bambini che muoiono di malaria eppure il mondo non si ferma per questa che davvero è un’emergenza umanitaria.
Il nostro mondo non si ferma per nessuna delle vere emergenze umanitarie di questo tempo perché sono il carburante del nostro stile di vita.
Non ci preoccupiamo di queste persone che non possono permettersi il lusso di mettere da parte il pensiero della morte, perché quel pensiero è per loro una realtà quotidiana ed ineluttabile.
Ci preoccupiamo solo di ciò che mette a rischio questo nostro continuo via vai senza senso, senza un fine ultimo.
Parleremo di malaria quando, a causa dei cambiamenti climatici, la zanzara responsabile del virus abiterà le nostre terre e metterà a rischio la vita dei nostri bambini.
Fino a quando le malattie servono a ridurre il numero dei nostri schiavi ci andrà bene, perché nessun impero può permettersi che gli schiavi diventino troppi, si alleino e tentino una rivoluzione.
Stiamo facendo come l’Universo: continuiamo ad espanderci per restare sempre più soli.
Questo accadrà alle galassie, che via via che l’Universo cresce si troveranno sempre più distanti tra loro.
Questo accadrà anche a noi: saremo ognuno una galassia immersa in un mare di materia oscura.
La tecnologia ci permetterà di essere sempre connessi e ci darà intelligenze artificiali da tenere in casa a cui parlare come se fossero amici o fidanzati/e.
Sempre più fili invisibili ci legheranno gli uni agli altri ma sarà solo un’altra illusione: per camminare sui fili e raggiungersi, dovremmo essere equilibristi!
Si torna al numero che deve essere sempre più alto: il numero di commenti, il numero di like, il numero di recensioni di un oggetto, di un albergo o di un ristorante senza preoccuparsi se su 100 commenti novantanove sono di persone che non ne capiscono niente e uno solo è di un esperto.
Il numero non può essere un paradigma valido per le relazioni, per i rapporti umani.
Si usa il termine condividere solo per aver postato un qualche tipo di contenuto.
Non basta. Stiamo svilendo i termini. Non solo, li stiamo modificando in modo peggiorativo.
Condividere rimanda ad un senso di gratuità del prendere qualcosa di mio e metterne una parte a disposizione di altri. Oggi, basta vedere quanto avviene su piattaforme come Youtube: condividere è diventato sinonimo di monetizzare.
Per condividere, nel senso profondo del termine, è necessario incontrarsi.
Per incontrarsi servono ponti, non fili.
E di questi ponti in una vita non possiamo costruirne molti.
La cosa peggiore è che finiamo troppo spesso per utilizzare i fili anche con quelle persone con cui già c’è un ponte ad unirci.
Perchè è più immediato, più facile… più vuoto.
C’è una differenza sostanziale tra noi e le galassie: le galassie non possono né scegliere né percepire il loro destino.
Accusiamo spesso i big tech di controllarci ma siamo noi che scegliamo di farci controllare.
La colpa è davvero nostra. Noi che siamo cresciuti con altre esperienze, con altri insegnamenti, con altri valori, abbiamo deciso di accantonare tutto per accettare questo tipo di sistema. Noi che non avevamo bisogno di un “visto che hai ascoltato questo, ti potrebbe interessare” o “visto che hai guardato questo programma, potrebbe interessarti” deciso da un algoritmo. Noi che entravamo in un negozio di musica e ci passavamo mezz’ora a parlare e ascoltare ed alla fine ne uscivamo con il disco di un gruppo metal mai ascoltato prima.
Siamo noi che scegliamo il mondo di oggi e ci lasciamo scegliere.
Rabbrividisco quando sento dire che il vaccino ci riporterà alla vita di prima.
È la vita di prima che ha portato a tutto questo.
Potrei scrivere ancora a lungo, potrei dire che anche “ricerca” e “storia” sono due termini che abbiamo svilito, potrei parlare dei bambini e dei ragazzi (non ho citato ad esempio che le nuove consolle non vengono più vendute con due pad, ad eccezione della switch, perché l’idea di Sony e Microsoft è che si gioca online, non a casa con un amico, con cui poi fai merenda, ti prendi in giro, leggi un fumetto, parli delle ragazze…) potrei e forse dovrei parlare anche del terzo fondamento che regge la civiltà occidentale oltre ad economia e divertimento, cioè l’individualismo celato dietro una manipolazione del termine “libertà”, ma decido di fermarmi qui.
“Doveva essere una pagina ma ad un tratto sono diventate 25… quello che stavo scrivendo era un po’ toccante e vibrante… avevo perso la capacità di dire balle” conclude Jerry Maguire, ottenendo in cambio un pesce rosso ed una segretaria di cui non conosce il nome.
Io mi alzerò da qui ed a seguirmi al massimo ci sarà Slinky, il mio cane. Anzi, il cane a cui voglio bene, perché, come scriveva Supúlveda, “non è giusto che una persona sia padrona di un’altra persona o di un animale”.
Eppure ancora accade.
Pochi clienti. Meno soldi. Più attenzione.
Declinatelo voi a seconda del contesto.
Tommaso Sardi
27-12-2020