È il 27 ottobre 2021, mercoledì.
Sono a riprendere mio figlio all’allenamento di calcio ed aspetto, all’esterno degli spogliatoi, che finisca di fare la doccia.
D’un tratto un uomo arriva e vede un’altra persona che evidentemente non trovava da molto tempo.
-Guarda chi si vede!- dice, mentre i muscoli del viso si contraggono, facendo intuire che sorrida sotto la mascherina.
-Grande, era una vita- dice l’altro, il cui sorriso é invece in mostra perché la mascherina la tiene sotto il mento (d’altronde siamo all’aperto e c’è poca gente).
A quel punto i due si avvicinano, sembra debbano abbracciarsi e invece si bloccano e fanno mezzo passo indietro.
Vorrei avere il coraggio di avvicinarmi a loro e dirgli che possono abbracciarsi.
Vorrei dire loro che non é un abbraccio che porta il contagio, che a livello di meccanica i due volti nell’abbraccio sono rivolti in direzioni diverse e non c’è scambio di aerosol.
Vorrei dirgli che se vogliono essere più sicuri possono tirarsi su la mascherina ma di non bloccare questo slancio.
Vorrei dirgli che l’affetto che passa dai pori della pelle, dalla contrazione dei muscoli e dal tatto é infinitamente maggiore di quello che passa dalle orecchie.
Resto immobile invece: mi prenderebbero per pazzo, per un no-vax, per complottista o semplicemente per rompicoglioni.
Penso a quante cose abbiamo deciso di reputare sicure, come parlarsi al tavolo di un ristorante, baciare le spose (che finiscono per essere come le statuette del bambin Gesù tenute dai preti a Natale) o ballare per ore senza mascherina e quanto abbiamo deciso di stigmatizzare senza alcun motivo, finendo solo per farci percepire l’altro come un pericolo e per farci sentire sempre più distanti dagli altri e quindi sempre più soli.
-Babbo andiamo- chiama Andrea uscendo dallo spogliatoio e riportandomi alla realtà…