Oggi usiamo il termine tecnologia e finiamo per assimilarlo a smartphone, invece la tecnologia é così ampia che non so davvero da dove partire per parlarne.
Partirò da me stesso, per provare a far capire quanto a me piaccia la tecnologia e quanto, soprattutto il campo videoludico sia stato sempre presente nella mia vita. Lo faccio perchè spesso sento parlare persone e colleghi ad esempio di videogiochi e mi chiedo “ma questa gente ha mai giocato ad un videogioco?” In altri articoli cercherò di affrontare il tema dei big data, dell’età giusta per uno smartphone, dell’utilizzo di internet e di quello dei social, passando attraverso auto elettriche e fusione uomo macchina.
La tecnologia entra nella mia vita sotto forma di Commodore 64, color tortora con il logo a righe arcobaleno: tastiera, schermo e un mangianastri, perchè non c’erano cd nè cartucce ma audiocassette.
Più avanti arrivarono dei floppy disc grandi all’incirca come cd-rom ma ovviamente quadrati.
A mio padre interessava provare a comprendere il linguaggio informatico utilizzando un programma specifico di nome Basic, a me interessavano i giochi perchè la programmazione non è mai stata una mia passione, ma è proprio da quel basic che sono nati tanti dei programmatori di fine secolo scorso. C’è una bella differenza tra il comprendere che per dialogare con una macchina serve imparare un linguaggio specifico e il mettere insieme dei cubi di comandi come nelle attività che facciamo svolgere alle elementari. In quei cubi di comandi qualcuno ha già impostato un linguaggio che resta sconosciuto ai bambini che li utilizzano. Ci torneremo su questo, più avanti. Per imparare che mettendo insieme dei pezzi si ottiene qualcosa di più grande, sono migliori Lego e Puzzle.
Il Commodore mi ha regalato uno dei ricordi più belli della mia infanzia: finire Bubble Bobble (ebbene sì, rientro tra quelli che se ne possono vantare), insieme a mio cugino Francesco. 100 schemi, ombrellini, scarpette colorate… un’avventura pazzesca!
Poi per me arrivarono il Windows 3.1, il Nes, il Gamegear della Sega, la sala giochi, la prima Playstation, il Gamecube ed infine la Wii: poi sono invecchiato. Ma quella del Windows, del Nes e della sala giochi è stata per me un’epoca d’oro.
Con il Windows ho imparato le basi della scrittura che ai tempi del Commodore avevo tralasciato (e ad oggi ho dimenticato perché la programmazione ha continuato a non essere una mia passione) e le ho imparate perchè o scrivevi qualcosa sul Dos oppure la macchina non funzionava. Arrivarono i primi cd copiati (non ricordo quando ma ad un certo punto arrivarono anche le prime connessioni tramite linea del telefono e Napster che però io non avevo). Nel mio gruppo giravano dei cd chiamati Twilight, di cui si narrava provenissero dall’Olanda, pieni di giochi e programmi, come ad esempio office con i codici per utilizzarlo come se fosse acquistato. D’altronde all’epoca era più difficile per un’azienda tenerti sotto controllo perchè i device non erano connessi continuativamente ad internet. Oltre a passarsi i cd e le soluzioni di tutti i giochi Lucas Art da Monkey Island in poi, ci ritrovavamo per giocare a Doom, credo il mio primo sparatutto: per quanto ci ho giocato sarei dovuto diventare un attentatore islamico!
Il Nes fu invece più un affare di famiglia, come spesso accade con le console della grande N (altro modo per chiamare la Nintendo). Mario Bross su tutti ma anche sparare alle anatre con quella pistolona di plastica era una grande sfida: anche in questo caso non mi sono mai messo a sparare alle galline e anatre che avevamo nel cortile dietro casa.
La sala giochi è stata presente nella mia vita soprattutto in seconda e terza media. Ce n’era una piccolina proprio a fianco della nostra fermata dell’autobus per tornare a casa, così, io e il mio amico Damiano ci fermavamo quasi quotidianamente a fare una sfida a Street Fighter 2: erano battaglie epiche. Come quelle che poi facevamo a casa del mio amico al suo Sega Mega Drive: e anche in questo caso non mi sono mai ritrovato a fare a pugni per strada.
Questi tre esempi mi sono utili per sfatare l’assunto di molti che i videogiochi violenti generano comportamenti violenti.
C’è una costante in tutto questo mio percorso videoludico nella tecnologia: non l’ho fatto mai da solo. Il pericolo dei giochi di oggi sta nel fatto di essere solitari, anche se coinvolgono migliaia di giocatori nello stesso momento. Quando la partita finiva e si spengeva il supporto, avevo con me qualcuno da guardare negli occhi e con cui parlare. Che fosse un amico, un cugino, o più tardi mio fratello (con cui si giocava a Resident Evil perchè farlo da soli metteva troppa paura), al termine della o delle partite, si mangiavano le Marie con la Nutella, oppure si andava a giocare a calcio o a basket, o si usciva con le bici o i motorini per andare al negozio di fumetti: oggi un bambino o un ragazzo spegne la consolle e si ritrova solo in camera sua. I nostri videogiochi erano un’occasione di vera socialità, quelli di oggi portano ad una socialità virtuale che è quella su cui stiamo puntando sempre di più. Certo prima si giocava in due ora in mille. Ma grandi numeri non equivale a grande vicinanza. La solitudine, nonostante siano massa, siano sempre connessi, siano pieni di amici sui proprio profili, è il male che più di tutti affligge i nostri ragazzi.
La solitudine, piuttosto che i giochi (per inciso io uso il “piuttosto che” come locuzione congiuntiva avversativa al posto di “invece di”, non al posto della “e” come si usa erroneamente fare oggi), può portare alla violenza etero o auto diretta (come i tristi fatti di cronaca legati a una challenge sui social).
Non è la stessa cosa giocare un’ora con il cellulare a Fortnite o giocare sempre un’ora a Fifa con un amico sul divano di casa: è questo che dobbiamo metterci in testa quando guardiamo i nostri figli!
Ecco finalmente nominato il centro del nostro mondo: il cellulare, o meglio detto, lo smartphone.
Lo smartphone, che significherebbe telefono intelligente, in realtà non è più nemmeno un telefono, o quantomeno quella del telefonare non è l’azione principale per cui lo utilizziamo. Per capirlo basta ripensare al motivo che spinge all’acquisto. Ai tempi dell’8700, dello star tac e dei nokia la domanda principale al negoziante era “ma prende?”, intendendo se l’antenna garantiva una ricezione tale da permettere di telefonare ovunque ci fossimo trovati. Oggi la questione è la connettività e il numero e qualità delle fotocamere: fare foto e pubblicarle, a questo serve principalmente.
Ma ne parleremo meglio in un altro momento, ora torniamo ancora al mio passato.
La tecnologia, dicevo, non é solo informatica. Tecnologia si potrebbe dire che é tutto ciò che sviluppa nel mondo reale le teorie della fisica e della matematica. Pensiamo al GPS o alla risonanza magnetica che non ci sarebbero senza Einstein e senza fisica dei quanti. Allora mi viene da pensare che in fondo tutte le invenzioni che hanno cambiato il nostro mondo siano tecnologia. La carta stampata ad esempio.
La differenza che noto tra le invenzioni del passato e quelle del nostro tempo é che le prime servivano a soddisfare nostri bisogni preesistenti mentre le seconde servono a creare dei bisogni.
Mia nonna sentiva il bisogno di un modo per lavare i panni senza doversi congelare le mani al lavatoio, e la lavatrice ha risolto questo bisogno. Immagino il sollievo, povera donna!
Nessuno di noi sentiva il bisogno di essere sempre connessi ma ora é un bisogno che se non soddisfiamo stiamo male.
É l’emozione che fa nascere in noi un’invenzione che ne chiarisce il tipo: quella che ti calma soddisfa un bisogno, quella che ti cala in uno stato ansioso e di mancanza, lo crea.
La tecnologia torna oggi in modo prepotente al centro delle discussioni, con l’utilizzo a scuola della didattica a distanza e anche qui si parla molto di come é possibile farla per renderla funzionale e appetibile per gli studenti ma ci si dimentica la domanda principale: quali device utilizziamo?
Nel momento in cui leggo della start up italiana migliore per istruire a una didattica digitale e nel poster di presentazione si vede un ragazzo con in mano uno smartphone, significa non aver capito la base. Non si può ritenere lo smartphone uno strumento adatto alla didattica. Nemmeno un tablet se non lo dotiamo di una tastiera fisica esterna.
Lo smartphone é troppo piccolo per leggere slide o qualsiasi altro tipo di file: su uno smartphone si scorre, non si legge (frase che ho già scritto, lo so).
Il problema tastiera, anche se non sembra, é importante perché su un tablet o smartphone se voglio scrivere la tastiera invade lo schermo e diminuisce la porzione di ciò che posso vedere.
La didattica andrebbe fatta principalmente con i PC e dovremmo chiederci la qualità dei PC che possediamo e possiedono i professori, perché la differenza non lo fa solo la linea Wi-Fi a cui ti connetti ma anche il processore, le ram, la scheda grafica, la scheda audio, il tipo di microfono e quello di webcam: queste sono questioni centrali che invece non vengono pensate.
Questo vale per tutto: dobbiamo tornare a differenziare tra gli strumenti tecnologici. Per un livello base possiamo ridurre anche tutto allo smartphone ma se vogliamo o dobbiamo fare di più allora questo non é più possibile.
Il device é importante anche tornando all’argomento svago. Si compra indifferentemente una console o un’altra ad un bimbo di 6 anni, quando nel panorama odierno la migliore resta ancora a distanza di vent’anni la Nintendo Wii. Dovrebbero continuare a produrla proprio per i bambini dai 6 ai 10 anni. Lo stile dei giochi più famosi (i vari Mario, Luigi, Kirby e così via) rendono chiara per i bambini la differenza tra mondo del gioco e mondo reale. Ai nostri giochi bastava la scarsa grafica, mentre quelli delle consolle di ultima generazione offrono un iperrealismo che poco si addice alle competenze cognitive di un bambino. É dai 10-11 anni che il bambino sviluppa il pensiero astratto quindi per questo trovo sarebbe necessario utilizzare strumenti che siano loro stessi a differenziare tra verità e fantasia.
Ci sono genitori che comprano ad un bimbo (o bimba, uso il maschile ma anche ad una bimba possono piacere i videogiochi) di 8 anni la Play e GTA pensando che sia un gioco divertente. Poi nemmeno lo guardano e questo figliolo si ritrova immerso in un mondo che appare reale in cui fa cose assolutamente non corrette per la sua età. Come non sono adatti per i bambini della primaria i giochi open world. Giochi a schemi sono invece più idonei.
Come per la DAD o lo smartworking, anche per i videogiochi chi parla senza differenziare tra i vari strumenti offerti dal mercato, non affronta la questione nel modo giusto.
Differenziare significa anche comprendere che ci deve per forza essere una differenza tra un gioco che acquisti e uno che scarichi gratuitamente come la maggior parte dei giochi di moda sugli smartphone. Il gioco da smartphone è diverso da quello da consolle. Deve essere immediato e di veloce esecuzione, spesso a tempo. Senza riprendere Fortnite, pensiamo a Ruzzle che fu uno dei primi a catalizzare le persone. Deve metterti in contatto con altri per accrescere l’idea di comunità, di unione con alcuni e di sfida con altri. Infine sfrutta il meccanismo della gratificazione al raggiungimento dei primi risultati positivi per poi indurti ad acquistare i contenuti a pagamento. I giochi di massa da smartphone assomigliano più a giochi d’azzardo che a videogiochi. Questi giochi sono pericolosi ad ogni età, non solo per i bambini o per gli adolescenti.
C’è poi un alto aspetto da considerare: giocare ai videogiochi è diventato anche un buisness personale. Conosco due modi per fare soldi giocando ai videogiochi.
Il primo è quello di avere un canale su una piattaforma, tipo Youtube, in cui si gioca e gli altri guardano i nostri video. In questo caso si guadagna dal momento in cui si viene seguiti da un numero tale di persone da attirare pubblicità e sponsor. Si diventa, in poche parole, influencer del campo videoludico. Trovo drammatico che molti adolescenti passino più tempo a guardare un tizio giocare che giocare loro in prima persona. E non accetto che si dica semplicemente “ma ora funziona così”.
L’altro modo per fare soldi giocando è diventare un professionista, il che vuol dire diventare uno che partecipa a tornei o campionati oppure un tester di un’azienda videoludica, cioè una persona a cui viene dato il gioco in anteprima in modo da poterne verificare la qualità. Mi piace questa evoluzione. Mi piace ad esempio che in parallelo al campionato di formula 1 ci sia quello di formula 1 su consolle (sono gli e-sports e abbiamo anche una federazione la Federesports). Lo trovo divertente e credo sia corretto che diventi un lavoro, perchè per essere giocatori professionisti ci vuole davvero molto impegno e sacrificio. Come non è la stessa cosa giocare a calcio al campino con gli amici e giocare in serie A, non lo è nemmeno fare il torneo di Pro Evolution con gli amici e farlo in un campionato mondiale, con il peso degli sponsor sulle spalle.
C’è qualcosa di pericoloso in tutto questo? Sì: lo sfruttamento minorile!
Ho usato un’espressione molto forte lo so ma quando si fanno girare un sacco di soldi tramite bambini di otto o dieci anni, senza un regolare contratto (perchè a quell’età è vietato un contratto lavorativo), senza assicurazione, senza nessuna tutela della salute psichica, mi sembra si possa parlare di sfruttamento: soldi e minorenni sono due cose che non dovrebbero essere accomunate. Ma mentre in certi settori, tipo cinema, credo che ci sia una regolamentazione chiara, per i vidoegiochi, come per il web, questa regolamentazione non esiste.
E’ necessario stabilire un’età e farlo a livello mondiale. Un calciatore può avere un contratto da professionista a partire dai 16 anni, prima è vietato che guadagni ed è una tutela nei suoi confronti per impedire che venga sfruttato dagli adulti (anche se poi nel momento in cui a un sedicenne fai un contratto da milioni di euro lo sfruttamento arriva lo stesso, ma questo è un altro discorso). Lo stesso limite andrebbe applicato ai canali youtube o ai videogiochi.
Al tempo stesso, come esistono società sportive per allenarsi e cercare di diventare un calciatore, credo dovrebbero anche esistere palestre per i videogiochi (sia ben chiaro: chi mi ruba l’idea mi dovrà dare una percentuale!), perchè i videogiochi sono e saranno sempre più uno sport e/o un lavoro e come per diventare calciatore se ho talento e passione a 13 anni mi ritrovo in una società dove faccio 4 allenamenti e la partita non vedo perchè non si debba fare lo stesso per i videogiochi.
Dobbiamo creare una struttura intorno a questo fenomeno per poterlo regolamentare in modo che vengano tutelati i ragazzi.
Tornando al tema consolle in casa, quando ho parlato di Nintendo ho suggerito la Wii invece della più recente Switch non per la tipologia dei giochi che è più o meno la stessa, quanto per la modalità di utilizzo. La Switch è una consolle ibrida che può essere utilizzata sia in casa connessa al televisore che fuori come fosse un tablet. Il problema è che molto spesso l’utilizzo in tipologia tablet viene fatto anche in casa. Credo che con i bambini più piccoli in casa andrebbe sempre utilizzata collegata al televisore.
E che differenza c’è, qualcuno potrebbe chiedere.
Immersività, questo è il concetto su cui dobbiamo porre attenzione.
L’immersività è un po’ come la saturazione in chimica. Più un composto è saturo e meno spazio lascia a nuovi componenti. Più un device è immersivo e meno spazio lascia al mondo esterno, alle relazioni.
L’immersività è un fattore a cui dovremo dare un limite se vogliamo lasciare spazio alle relazioni. Mi sembra invece che la tecnologia di oggi punti sempre più a farci restare soli rispetto alle persone che abbiamo fisicamente accanto, con la sensazione di avere tutto e non mancarci niente. Un esempio è il brevetto di Hyundai per il suono in auto diviso in quattro settori (Separated Soun Zone), così oguno può ascoltare la propria musica senza disturbare l’altro: finiremo per viaggiare ognuno in una bolla senza più scambiare una parola l’uno con l’altro. A 15 anni avrei voluto ascoltare solo Oasis a ripetizione eppure nei viaggi di ore per andare a sciare dovevo sentire anche Isoradio per gli aggiornamenti del traffico e la musica scelta anche dai miei familiari. E a 15 anni può anche andar bene volersi isolare dal resto della famiglia (chi di noi non aveva un walkman con le cuffie?!) ma questo accade oggi anche con i bimbi più piccoli. Quante volte passiamo un’auto e vediamo i bimbi dietro fissi a guardare lo schermo posto sui poggiatesta dei sedili anteriori? Uno dei ricordi che mia moglie racconta con più gioia è di quando lei e sua cugina, nel viaggio Pistoia-Grecia in auto, giocavano a nascondino sui sedili posteriori: sì a nascondino! Chi mai lo farà dei nostri figli? Si perderanno qualcosa? Credo di sì.
Lo credo perchè ritengo che non esista alcuna esperienza al mondo che da sola può insegnarci un comportamento. I nostri comportamenti si costruiscono sui comportamenti dei nostri genitori e su tutte le piccole esperienze che viviamo. Ogni piccola esperienza lascia un pezzetto che sommato agli altri finisce per strutturarci.
Non posso certo dire che l’aspettare che il mangianastri del Commodore caricasse il gioco, mi abbia insegnato la pazienza ma è stato sicuramente un pezzetto che si è depositato dentro di me.
Al tempo stesso non posso dire nemmeno che il non poter ascoltare solo Oasis, andando a sciare sulle Dolomiti, o il dover smettere un gioco perchè la televisione serviva anche ad altri in casa, mi abbia insegnato che la mia libertà esiste solo in relazione alla libertà degli altri, ma anche questo ha depositato un pezzetto dentro di me.
O che mia moglie abbia imparato a trovare strategie per superare la noia dal giocare a nascondino in auto con sua cugina, ma certamente è stato un pezzetto che si è depositato dentro di lei.
Ne servono tanti di questi pezzetti. Quanti ne possono sperimentare i nostri figli, e i figli che verranno, nel contesto in cui li stiamo crescendo?
Rispetto alla pazienza, risponderei molto pochi. Noi stessi non ne abbiamo più: scegliamo un articolo su Amazon scartando quelli che arrivano in due giorni perché ci vuole troppo. Parliamo e qualunque cosa ci viene in mente invece di aspettare che il nostro cervello trovi la risposta, la cerchiamo subito su Google. E così facciamo con i nostri figli e loro apprendono questo. Apprendono che l’attesa, che é il vero motore della pazienza, non deve esistere più.
É attesa anche prendere un vocabolario e cercare il significato di un termine piuttosto che affidarsi subito al web (altrove vedremo quante più competenze migliora un bambino consultando un vocabolario al posto di cercare su Google)
Come spazio e tempo sono due entità fisiche connesse, velocità e apprendimento lo sono allo stesso modo: più aumento la velocità e più diminuisco la conoscenza.
Non fraintendetemi: anche la troppa lentezza non è funzionale!
Questo concetto cercherò di approfondirlo quando parleremo dell’uso di smartphone e tablet nei bambini.
Finisco sottolineando un ultima cosa: rispetto a tutti quelle esperienze che hanno depositato dei pezzetti di comportamento dentro di me, nessuno mi ha mai detto “guarda ora ti sto insegnando la pazienza” oppure “ora imparerai la libertà” ma è passato tutto in modo implicito.
Oggi invece costruiamo migliaia di laboratori educativi e finiamo per non chiederci cosa ci comunicano in modo implicito le azioni di tutti i giorni.
Tommaso Sardi
21-03-2021