Essendo un articolo piuttosto lungo, parto subito da una delle conclusioni, che nel proseguo verrà meglio argomentata: chiudere le scuole ma lasciare le persone libere di andare nei parchi con i bimbi, prendere il caffè e poi mettersi in cerchio a berlo (e la mascherina per bere non la tiri giù ogni singolo sorso ma la tieni fissa abbassata) e chiacchierare oppure liberi di stare insieme a fumare, significa chiudere l’unico luogo da cui può partire un tracciamento! Nessuno va a fare un tampone per mezza giornata di febbre ma uno studente a scuola viene mandato a farlo e in questo modo blocchi tutta una famiglia che con estrema probabilità avrà già altri positivi.
Dal punto di vista epidemico la scuola andrebbe vista e raccontata come il soggetto principale del tracciamento. Altrimenti ok chiudere ma allora chiusura totale e nessuno in strada come a marzo/aprile 2020!
Veniamo a noi, partendo dal recente passato, per arrivare a parlare di scuola anche oltre lo spartiacque del covid-19…
Ero in settimana bianca con la mia famiglia. Senza ancora sapere di cosa si trattasse, pur non essendo ancora sdoganato l’uso della mascherina, eravamo già in modalità protezione covid: gel ogni qualvolta si toccava qualcosa, mai con sconosciuti su un impianto (a dire il vero regola facile da rispettare perché eravamo quasi soli), finestrini delle cabinovie sempre aperti, pranzo fuori dal rifugio e divieto assoluto di quel gesto che tutti gli sciatori fanno: indice e/o medio in bocca per tirare via il guanto dalla mano. Abbiamo fatto solo una cena al ristorante e quel giorno, ripensandoci, abbiamo corso un bel pericolo. Ma ancora c’era chi diceva che era arrivato un raffreddore dalla Cina e chi parlava di una malattia peggio dell’Ebola.
Era un mercoledì quando arrivò la notizia: chiuse tutte le scuole.
É stato giustissimo mettere i ragazzi a casa, il problema é che dopo quel giorno la scuola é scomparsa da ogni discussione.
La discussione della piazza si é di fatto incentrata su cose ben più importanti: come facciamo per la corsa?
Mi illudevo che, nel silenzio dei loro uffici, chi di dovere stesse lavorando con in testa l’idea che la scuola non è un parcheggio per bambini e ragazzi ma il luogo dove si conosce e si sperimenta ciò che ci serve nella vita: nozioni e relazioni.
Soprattutto relazioni. A scuola si impara a stare con gli altri, a contrattare, a litigare, a innamorarsi, a restare delusi da un amore non corrisposto, e molto altro ancora. In particolar modo per i bambini delle elementari. Non possiamo dimenticare infatti che si è rovesciato il rapporto tra chi frequenta la scuola solo la mattina e chi fa il tempo pieno. Oggi questo avviene per la maggior parte dei bambini, quindi veramente se viene tolto loro questo spazio, viene tolta loro la fetta più grande della vita. Noi imparavamo a stare con gli altri dopo scuola, per strada, in città, nei cortili. Ai bimbi di oggi questo è quasi precluso del tutto.
Si è puntato sempre e solo al concetto di didattica, che, sbagliando, rimanda al non restare indietro con i programmi, ed é stato pensato che il modo migliore fosse quello di farla online, ma credo che, in quel momento, ci sarebbe stato semplicemente bisogno di far passare ai bambini e soprattutto ai ragazzi delle medie e delle prime classi delle superiori (gli anni che portano all’abbandono scolastico), il messaggio che la scuola è una risorsa primaria e che la loro istruzione, la loro formazione e soprattutto la loro salute psicologica era fondamentale per il Paese.
Non si è mai curato in tutta questa pandemia, l’aspetto implicito delle decisioni e dei messaggi che si danno. Aprire anche con meno ore, anche a giorni alterni, all’aperto, visto che siamo il paese del sole, anche semplicemente per parlare lasciando da parte i programmi, avrebbe passato il messaggio che dicevo pocanzi. Non farlo, e nemmeno attivare un discorso per poterlo fare (perchè a volte ci mettiamo tutto l’impegno ma poi ci rendiamo conto che una cosa non si può fare), ha mandato il messaggio che la scuola non è centrale, che i ragazzi non sono centrali.
E’ questo il motivo principale che mi spinge a scrivere di scuola. Dimenticarsi della scuola significa dimenticarsi di coloro la cui crescita dipende da ciò che noi decidiamo. E’ come parlare del lavoro e dimenticarsi dei lavoratori (e succede anche questo oggi).
Quando si prendono decisioni bisognerebbe provare a mettersi nei panni dell’altro e chiedersi “come starei se fossi io a subire questa decisione?”
Parliamo tanto di inclusività ma qualcuno si è domandato che fine hanno fatto in tutto questo i bambini bisognosi del sostegno? Perchè non sono stati i primi bambini a cui abbiamo pensato? Perchè non abbiamo mai riflettuto che per molti bambini che fanno il tempo pieno la scuola rappresenta l’unica occasione in cui avere un pasto completo?
Non credo di essere una persona tollerante, perchè questi sono pensieri che non riesco a tollerare. E mi sconforta constatare continuamente che il ragionamento sui bambini arrivi sempre dopo molto altro e quello sui bambini bisognosi (che sia per deficit o per povertà) ancora dopo o addirittura mai.
La scuola va riformata ma non continuando ad aggiungere laboratori e attività che servono solo ad abbellire ma non cambiano la sostanza.
Va riformato il pensiero che abbiamo sulla scuola. Iniziamo da mettere figure di spessore alla guida del Mnistero dell’Istruzione, la cui parola pesi a livello politico. Questo sì che sarebbe un bel segnale di cambiamento.
Ma va anche riformata alla base perchè quando un’indagine dimostra che l’80% dei professori non vuole riprendere la didattica in presenza, é il segno che le politiche attuate in questo nuovo millennio hanno portato a vedere l’insegnamento come un qualcosa che scegli quando vedi precluse le altre strade professionali. Quanti laureati non hanno trovato sbocchi e si sono messi in cerca di una cattedra? Non come piano B, che va benissimo, ma come piano E o F!
Dal mio punto di vista professionale, la migliore scuola è quella che mira al benessere del sistema e degli individui che di questo sistema fanno parte, mettendo sempre al centro il sottosistema più debole: i bambini e i ragazzi, con tutte le loro sfaccettature.
È quella scuola che garantisce strumenti per rendere positiva la relazione e la comunicazione perché un sistema i cui sottosistemi hanno tra loro una buona relazione ed una buona comunicazione, è un sistema che funziona e che garantisce la crescita del sistema stesso. Il sistema scuola è un sistema umano per questo se vogliamo renderlo migliore dobbiamo investire sia sulla quantità che sulla qualità dei soggetti che guidano i processi del sistema: presidi e docenti in primo luogo.
Ma anche sulla qualità e quantità di quelle figure che possono sostenere e monitorare presidi e docenti. Penso ad esempio a supervisioni guidate da psicoterapeuti. E lo penso anche se personalmente riceverei un danno oggettivo al mio lavoro di clinico: un sistema scuola che funziona è un sistema che produce meno famiglie bisognose di consulenze o terapie.
La formazione (che sia però una formazione che si basi sui bisogni dei bambini e non sui bisogni del mercato) e la valutazione dei docenti devono essere i due punti centrali su cui fondare la scuola, e sono i punti su cui questa pandemia ha mostrato la nostra maggiore carenza. Non serve a niente fare laboratori di robotica o di coding se le nostre capacità informatiche si fermano a toccare con un dito un’icona su uno schermo (esempio di logica basata sul mercato). E’ come voler correre senza sapere ancora stare in piedi.
Si punta continuamente sulle competenze del fare, dimenticandosi che oggi, in un mondo sempre più multiculturale, sempre più veloce, sempre più connesso e al tempo stesso sempre più solitario, tutti noi dai bambini agli adulti avremmo molto più bisogno di investire sulle competenze dell’essere. Per usare strumenti complessi e potenzialmente dannosi serve prima aver una chiara coscienza di se stessi. E il nostro è un mondo complesso e potenzialmente dannoso.
Non ascolto Lorenzo Cherubini (Jovanotti) ma c’è una frase che trovo molto importante quando penso al rapporto che noi adulti abbiamo nei confronti dei ragazzi se vogliamo dar vita ad una società educante. Una frase che gli disse un suo amico o frate, non ricordo, a Cortona in un momento in cui era in crisi creativa: -Devi chiederti, cosa sei disposto a perdere-.
Sta tutto in queste parole: cosa sei disposto a perdere.
Cosa siamo disposti a perdere per la crescita dei nostri bambini e dei nostri ragazzi? Perchè non si può pensare che loro ci ascoltino, ci seguino, ci stimino, se non sentono che noi stiamo spendendo una parte della nostra vita per loro.
Invece di schierarsi in blocco in difesa della scuola, e dei ragazzi che la frequentano, l’intera società (dai politici alle persone comuni) ha reso la scuola il capro espiatorio su cui puntare ogni volta il dito: come i bulli che maltrattano il più debole, il più non visto. La scuola é la non vista per eccellenza!
Si sottolinea solo la funzione di trasmissione del virus a scuola, nonostante i protocolli messi in atto da settembre hanno dimostrato di funzionare, mentre non si evidenzia la funzione di controllo che offre la scuola. I ragazzi a scuola seguono le regole, fuori no. Ma soprattutto gli insegnanti fanno quello che noi genitori spesso non facciamo: se vedono un sintomo lo segnalano e attivano un percorso. Noi genitori se nostro figlio ha per mezza giornata un po’ di febbre, lasciamo stare e pensiamo a una frescata. Non si pensa che per un soggetto sano potrebbe essere il massimo sintomo espresso. I medici di base ci dicono di aspettare tre giorni di febbre, la scuola invece manda subito al primo segnale a fare il tampone: é l’unico ambiente dove si fa un vero controllo del contagio. Si mettono tutti i compagni di classe a casa, a lavoro invece non si chiude un ufficio per un soggetto positivo.
Le scuole non andavano chiuse, andavano aperte a tempo pieno, con ore dedicate al relax e alla socialità nel rispetto delle norme, così avrebbe avuto un senso dire ai ragazzi: abbiamo provato a fare il massimo, usciti di qui restate a casa per favore. Qualcuno, ma credo molti, ci avrebbe ascoltato.
Chiudiamo le scuole perchè fanno aumentare i contagi, non riapriamole nemmeno a gennaio perchè con le feste sicuramente il virus avrà ripreso forza, i ragazzi riempiono gli autobus quindi meglio che stiano a casa. Queste sono solo alcune delle frasi dette. Tutte che partono dal presupposto che l’economia è più importante di ogni altra cosa. L’economia è certamente molto importante (la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro) ma se una buona politica di investimenti può rendere slancio all’economia non credo possa esistere niente che possa rimepire i vuoti educativi che stiamo creando per le giovani generazioni. Non mi stupisco affatto che l’abbandono scolastico sia oggi in crescita.
Ma la frase più sconcertante che viene detta è un’altra: la colpa di questa situazione è degli adolescenti perchè girano senza mascherina.
Chi dice queste scemenze ha chiaro cosa sia l’adolescenza? Eppure tutti noi lo siamo stati, credo. Tutti noi andavamo col motorino senza casco e spesso in due; tutti noi ci siamo fumati sigarette, canne e anche altro; tutti noi abbiamo detto balle ai nostri genitori per andare in luoghi dove non ci sarebbe stato concesso andare; tutti noi abbiamo fatto forca a scuola (fare forca da noi significa fingere di andare a scuola, saltarla e firmarsi da soli la giustificazione); tutti noi abbiamo fatto molte cose vietate: nessuno di noi mentre le faceva ha mai avuto dubbi nel farle.
L’adolescenza è il momento più complesso dell’intera esistenza. Il momento in cui ci sentiamo tutto e niente, in cui vogliamo stare soli ma non sentirsi abbandonati. E’ il momento in cui ci si ribella contro tutto ciò che c’è di precostituito.
L’adolescente si sente invincibile: non esiste il pensiero che a settanta all’ora in due su uno scooter si possa morire. Per l’adolescente la morte esiste solo quando lui stesso vuole morire.
L’adolescente non mette la mascherina perchè il capo del governo e tanti altri in giacca e cravatta dicono di farlo. L’adolescente odia quelle persone.
Baden Powell, il fondatore del movimento degli scout, ebbe un’illuminazione. Lui diceva: di fronte ad un ragazzo che non si impegna o che dà problemi, non affidargli il compito più banale ma quello di maggiore responsabilità. Sentendosi responsabilizzato quel ragazzo si impegnerà al massimo per ripagare questa fiducia.
In tutto questo tempo abbiamo saputo solo parlare dei ragazzi ma non ci siamo mai fermati a parlare con loro.
L’adolescente è ribelle di natura ma se lo responsabilizzi, se lo fai sentire parte di un qualcosa su cui lui può direttamente incidere e fare la differenza, allora sarà dalla tua parte. Certo, non tutti, ma una bella fetta sì. E una bella fetta sarebbe ad oggi più che sufficiente.
La scuola sarebbe stato il posto ideale per farlo.
Quando sopra scrivevo che il rientro a scuola nei mesi primaverili, o anche solo per tutto giugno, sarebbe stato importante, lo dicevo in termini di messaggio implicito. Alla luce di come è proseguito il discorso, credo che sarebbe stato funzionale e dovrebbe esserlo anche adesso proprio perchè non esiste luogo migliore della scuola per parlare ai nostri ragazzi e per cercare di coinvolgerli.
Tommaso Sardi
07-02-2021